L’eno-viticoltura è consolidata ed importante, da secoli, da millenni anche nell’economia locale. Immense aree erano infatti coltivate a vite tali da creare un panorama molto diverso da quello attuale. Uno scenario simile a quello che attualmente si può vedere in pochi posti delle Langhe e dell’Astigiano e che si caratterizzava da lunghi e rigogliosi filari che coprivano interamente la collina del Castello e la pianura, sino alle sponde del torrente Grana.
Della presenza, a Caraglio, della vite e della sua coltivazione si hanno cenni antichi, lo dimostrano: i ritrovamenti di fossili di semi e foglie di questa pianta; la scoperta negli scavi archeologici di San Lorenzo di Caraglio di un reperto romano di terracotta raffigurante un tralcio e dell’uva; la notizia tramandata dalle cronache di Cuneo di Dalmazzo Grasso (1484-1570) in cui si narra dell’eccezionale raccolta di uve da parte di un contadino caragliese… e così via fino a qualche decennio fa dove il vino caragliese acquisisce il nome Merola. La denominazione dell’unico luogo dove, come un residuo di un antico ghiacciaio, resistono, con altre e rare solitarie realtà collinari, poche e ordinate vigne.
Un nome che evoca, nei caragliesi, una certa spigolosità e una spiccata rudezza tipica dei vini d’alpe. Certamente difficile da domare, sia nella vinificazione, nella conservazione, che nell’approccio. Un vino ricco in polifenoli e di revesterolo (note molecole antiossidanti e cardiobenefiche) data l’ubicazione in altitudine dei loro impianti (più vicini al sole), meno alcolici e più dissetanti. Inoltre era nota l’abitudine di aggiungere delle mele mature nella vinificazione delle uve, per aumentare il grado zuccherino e aromatizzare il mosto, peculiarità dei luoghi valligiani. Anche la conservazione era particolare. Data l’irrequietezza e la poca stabilità del vino durante il caldo periodo estivo le bottiglie venivano interrate (lasciando solo il collo fuori), perfettamente sigillate con cera o ceralacca, in luoghi ombrosi e nascosti dell’orto o in cantina o in sabbia .
Se poi l’annata non era stata favorevole, era uso consumare tale vino addolcendolo e insaporendolo con delle foglie di melissa. Tuttavia il Merola, come detto, è un nome dato recentemente e identifica il suo superstite territorio di coltivazione e non è un vitigno ma un assemblaggio di diverse varietà d’uva.
Pubblicazione ora depositata presso la biblioteca internazionale “La Vigna” (Centro di Cultura e Civiltà Contadina) di Vicenza e visionata grazie alla disponibilità della prof.sa Alessandra Balestra, curatrice della suddetta importante struttura. In tale opera si fa cenno di questo vitigno tutto nostrano e che popolava i nostri antichi vigneti.
Una buona notizia che può regalare ottime prospettive per il nostro paese.
La ricerca continua, si sta recuperando del materiale da antiche vigne locali grazie alla preziosa disponibilità dei proprietari e, nel contempo, per ricordare ai prossimi ho in progetto, nelle mie possibilità e se trovo collaborazione, l’elaborazione di una pubblicazione che raccolga le testimonianze dei nostri reduci e coraggiosi viticoltori, ormai solitarie sentinelle di una grande tradizione. Saranno gli ultimi? Io credo, io spero di no.
Testo a cura di Lucio Alciati
Fonte